Il volto nascosto della Namibia: gli Himba

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A nord della Namibia, in una delle regioni meno ospitali e visitate dell’Africa meridionale chiamata Kaokoland, vivono gli Himba, popolazione nomade sopravvissuta alle contaminazioni con i colonizzatori europei dei secoli scorsi. Sembra l’inizio di un racconto fantastico, invece i villaggi Himba ci sono veramente e alcuni possono essere visitati a partire dalla città di Opuwo, ma soltanto partecipando a escursioni organizzate da guide locali.
Nonostante il timore che una visita guidata non possa garantire un incontro veritiero con gli Himba mi faccia titubare, alla fine la curiosità nei confronti di questa tribù che sembra essere riuscita a fermare il tempo ha la meglio. Decidiamo di inserire Opuwo nel nostro itinerario namibiano, ancora incerti se effettivamente affidarci a una guida per raggiungere uno dei villaggi o limitarci a un giro sul posto e a eventuali incontri fortuiti. In un secondo momento, i dubbi sull’effettiva possibilità di incontrare gli Himba sommati al rapporto tra il tempo a disposizionne e le grandi distanze da coprire ci fanno fermare più a sud. Nella nostra capanna priva di corrente elettrica mi sento parte del monumentale e silenzioso paesaggio che si stende tutto intorno a noi: strati di roccia dalle sfumature brune e rossastre ci mostrano i segni delle ere passate, ci infondono rispetto per la loro anzianità, ci ricordano la natura microscopica dell’uomo, abitante frastornato di una realtà che lo illude di essere invincibile, eterno, sovrano della natura.
Dopo una bella serata animata dai ragazzi della scuola locale, abbiamo ormai rinunciato all’idea di incontrare gli Himba. Ma ecco che ci viene offerta la possibillità di unirci a un gruppo in partenza per visitare un villaggio non troppo lontano. Continuo a titubare, ma la decisione finale è di andare, è la nostra unica occasione.
Una duna bassa protegge il cerchio di poche piccole capanne con vista sul recinto delle preziose caprette. Davanti alle porte, piccoli focherelli custoditi tra mucchietti di pietre e pochi legni, preziosi per preparare i pasti e riscaldarsi. Ad accoglierci una dozzina di giovani uomini e donne e qualche bambino che scorrazza. Gli adulti indossano un gonnellino tenuto sui fianchi con una cintura, quelli delle donne si allungano sul dietro e si arricciano in gale brune di pelle di capra. Certo, avevo letto degli Himba e dei loro costumi, ma lo stupore è inevitabile. Non abbiamo ancora mosso un passo che la nostra guida, agitando un bastoncino che ci genera non poco imbarazzo, prende a indicare acconciature, gioielli e abbigliamento, simboli del ruolo che chi li indossa ricopre nella società e nella famiglia.
Seduta su una coperta fuori da una delle capanne, una giovane donna unisce del grasso alla polvere rossa appena ottenuta pestando l’ocra. Con la crema ricavata si corsparge il corpo, che assume il tipico colore rossastro, mentre il fumo dell’incenso lo avvolge e profuma. L’intimità di questo rituale che per gli Himba equivale al nostro bagno, ci fa spontaneamento mantenere un po’ di distanza. Ma la nostra guida ci invita ad avvicinarsi, addirittura a entrare nella capanna, facendoci di nuovo sentire a disagio, curiosoni incuranti degli abitanti del villaggio. Non sono l’unica del gruppo a ritenere che i tempi imposti siano troppo rapidi e a soffrire l’impossibilità di comunicare con gli Himba, almeno per chiedere permesso e dire grazie.
Prima di partire la guida invita tutti a esibirsi per noi in una danza evidentemente forzata, lasciandoci spettatori di uno spettacolo scomodo. Soltanto i bambini che ci saltano intorno, corrono qua e là e ci guardano con occhi curiosi danno al villaggio himba un tocco di spontaneità.
Di ritorno dalla nostra escursione non ci sentiamo arricchiti da un incontro, anzi non ci sembra si possa nemmeno parlare di incontro. Nonostante i dubbi che abbiamo sempre avuto riguardo a una visita organizzata dei villaggi himba, non abbiamo saputo resistere alla curiosità. Non ci sentiamo di conoscere gli Himba più di quando siamo partiti e meglio di quanto si possa fare leggendo un buon libro, ma sicuramente ne so di più sul mio sesto continente: quando si inizia un viaggio si parte con la testa spinti dalla curiosità e dalla voglia di conoscere, ci si affida alle gambe per raggiungere le mete che ci prefiggiamo, ma il vero viaggio – quello che ci cambia – sono le emozioni a condurlo e il cuore a raccontarlo.

Giugno 2015

Namibia: non solo “big five”

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Un viaggio in Africa meridionale pare essere per molti sinonimo di “big five”. Ma partire per questi luoghi con una lista da spuntare una volta visti elefante, leone, bufalo, rinoceronte e leopardo mi è sempre sembrato alquanto riduttivo. Di ritorno dal viaggio in Namibia ne sono più che mai convinta. Tuttavia ho pensato che mantenere il numero cinque potrebbe aiutarmi a contenere il racconto sugli incontri con gli animali della Namibia nello spazio di un post. Ecco quindi una lista alternativa di cinque animali, la mia “top 5”.
Sebbene rientrino nei “big five”, al primo posto devo inevitabilmente citare gli elefanti, perché la passione per questi animali è uno dei motivi che mi hanno portata in Africa. La curiosità di osservarli da vicino e il desiderio di vederli liberi nel loro ambiente naturale accompagnavano un’intrepida attesa iniziata molto tempo prima del viaggio che ora sembrava finalmente essere sul punto di concludersi. A poco a poco però è subentrato il timore di poter essere delusa dall’incontro tanto desiderato: i grandi pachidermi protagonisti di simpatiche raffigurazioni e spettacolari documentari avrebbero potuto rivelarsi enormi animali pelosi, ricoperti di fango e aggressivi.
Ma eccoli avanzare verso la pozza d’acqua con movimenti lenti, pesanti ma silenziosi, pachidermici ma non sgraziati, maestosi. Le zanne sostengono gli angoli della bocca in un perenne sorriso contagioso, le grandi orecchie sventolanti sembrano essere state stese con un mattarello che ha lasciato i bordi troppo sottili e un po’ rotti. La proboscide pende pesante dal muso dell’elefante ed è in continuo movimento, solo di tanto in tanto può godersi una pausa appoggiata su una zanna. La pelle rotta degli elefanti più anziani racconta di lunghe camminate sotto il sole cocente, di energiche grattate contro alberi probabilmente non abbastanza robusti per non riportare conseguenze anche loro, di lotte per difendere se stessi e il branco, e fa nascere un senso di rispetto simile a quello suscitato dalle rughe. I piccoli sembrano non riuscire a tenere il passo dei loro giganteschi genitori, ma avanzano tranquilli sotto la protezione del branco e soprattutto della mamma vigile e pronta ad allontanare rumorosamente chiunque si avvicini troppo al suo piccolino.
C‘è un altro profilo inconfondibile che abita le vaste distese della Namibia, quello delle giraffe: eleganti con i lunghi colli pezzati ben riconoscibili anche in lontananza, divertenti con le lunghe gambe che salgono come esili tronchi tra le chiome degli alberi mentre sopra spunta la testa con la mandibola sempre in lento movimento, incredibili mentre eseguono un’improbabile spaccata sulle zampe anteriori e allungano il collo verso l’acqua per bere. Come gli elefanti, anche le giraffe si muovono lentamente, quasi a non voler turbare con i movimenti dei loro grandi corpi l’equilibrio della natura intorno a loro. Accennano una corsa, ma è come se si muovessero a rallentatore. Difficile credere a chi racconta quanto possa essere potente e pericolo un loro calcio.
L’aspetto delle zebre è più familiare per la loro somiglianza con il cavallo, ma il manto a strisce bianche e nere le rende uniche. Da vicino soltanto il bianco dei piccoli è veramente candido, negli adulti è piuttosto ambrato, come se avessero una leggera abbronzatura. La mancanza di strisce sulla pancia distingue le zebre di montagna da quelle comuni. Lo studio dei mantelli striati potrebbe proseguire, se i musi fissi verso di me non facessero subentrare l’imbarazzo di sentirmi a mia volta osservata. Quando avvertono pericolo le zebre si immobilizzano e sembrano i modellini di loro stesse, quelli con cui giocano i bambini e che la sera finiscono nel cesto dei giocattoli. Ma ecco che tornano a muoversi e partono al galoppo verso l’orizzonte alzando una delicata nuvola di polvere sopra l’erba gialla.
Impossibile poi non includere nella “top 5” la famiglia di animali dal passo agile e dalle meravigliose corna che popolano numerosi le vaste distese della savana namibiana e dei quali finora non conoscevo nemmeno i nomi: gli springboks e gli impala leggeri saltatori, i kudu dal portamento elegante, gli orici con la maschera nera dipinta sul muso chiaro, gli Hartebeest con le corna a forma di cuore, le antilopi nere dalle enormi corna curvate all’indietro. I loro mantelli sono tinti dei colori dorati, aranciati, bruni delle terre che abitano.
C’è ancora posto per un solo animale nella mia “top 5”: il rinoceronte nero dai lineamenti di dinosauro che si abbevera specchiando il suo ingombrante corno o quello bianco che segue il suo piccolo sulle corte zampe, lo struzzo dal collo sinuoso che danza sulle lunghe gambe da vecchia ballerina indossando un vaporoso tutù nero, i facoceri trotterellanti che a gruppetti attraversano la strada con le code dritte verso l’alto, i sinistri sciacalli, gli gnu dal mantello colore della notte? Oppure le migliaia di lucide foche che giocano nell’acqua, i delfini che saltano festosi intorno al nostro catamarano, i pellicani dalle morbide piume rosate e dal capiente becco di carta crespa, i gabbiani chiassosi, i fenicotteri con le sottilissime gambe che sorreggono la loro nuvola rosa sopra l’acqua, i rapaci dal volo regale, gli uccellini dai colori sgargianti che fanno pensare a principi azzurri sotto incantesimo. E tantissimi altri piccoli animali le cui tracce sulla morbida sabbia delle dune raccontano di una vita inaspettata che abita questo luogo dall’apparenza arida e inospitale.
Molti di questi incontri sono avvenuti per caso, percorrendo le strade della Namibia; altri sono stati cercati durante passeggiate sulle dune tra Sossusvlei e la costa, uscite in barca sull’oceano tra Swakopmund e Walvis Bay, safari nel parco Etosha. Tutti sono stati attesi da occhi vigili, curiosi, desiderosi, pazienti, sebbene messi a dura prova da spazi sconfinati. A pochi passi dagli animali l’emozione e l’entusiasmo esplodevano come se fossero lievitati durante l’incerta attesa. Si trattava però di un’esplosione sorda: non c’era bisogno di ricordarsi di abbassare la voce per non disturbare gli animali, lo stupore è silenzioso.

Giugno 2015